Gli orti in città
La dimensione ecologica e culturale dell’orto-giardino
L’orto nel processo storico di formazione del paesaggio urbano italiano
La cura della terra, la terra che cura
Hortus urbis, l’orto-giardino che rinasce dal passato
Impianti e strutture per l’orto-giardino
Progettare orti per la città
Alfabeto Verde è uno spazio aperto per tutti coloro che dedicano parte significativa del proprio tempo allo sviluppo e alla cura del verde in città. Sia che ciò avvenga per motivi professionali, oppure per piacere, il contatto diretto con la natura che vegeta nelle pieghe del tessuto urbano ci accomuna, ci sollecita, ci migliora. Intendiamo comunicare e dare visibilità al lavoro fin qui svolto per stimolare lo sviluppo creativo della coscienza ambientale collettiva e la diffusione capillare di pratiche florovivaistiche ed ecologiche naturali.
Dopo un silenzio durato due anni, lunga pausa generata da varie cause concomitanti, Alfabetoverde propone in questa nuova edizione un numero monografico interamente dedicato al tema dell’orticoltura in città, offrendo una panoramica critica su ciò che si muove in questo campo. La proposta di lettura del fenomeno non ha alcuna pretesa esaustiva ma intende illustrare, con attenzione e curiosità, il ruolo che gli orti, sorti in gran numero nelle nostre realtà urbane, assumono nella pratica di autoproduzione alimentare, nello sviluppo della socialità e, non ultimo, nella valorizzazione del paesaggio. Nelle varie sezioni del sito saranno illustrati progetti, esperienze e riflessioni che speriamo aiutino a comprendere meglio le dinamiche che alimentano questa realtà sociale.
La diffusione degli orti nel tessuto urbano è un fenomeno che alimenta un dibattito di grande attualità. La possibilità di ridurre la dipendenza alimentare della città favorendo la destinazione di un maggior numero di aree non edificate alla coltivazione orticola è uno degli obiettivi che le amministrazioni locali intendono perseguire nei prossimi anni. Nell’ambito delle iniziative promosse dall’EXPO di Milano si è aperto un confronto sulle esperienze fin qui condotte in molte aree metropolitane: nella retorica evanescenza di molte enunciazioni di principio non si è giunti però ad alcuna sintesi né a definire strategie di sviluppo che possano integrare le differenti esperienze in un discorso coerente ed incisivo, non diciamo a livello planetario, ma almeno nazionale.
La coltivazione intensiva di frutta, ortaggi e verdure in ambito urbano è una realtà economica e sociale che ha caratterizzato storicamente il tessuto delle città del nostro Paese.
La sua reale consistenza ci appare però inafferrabile a causa della frammentazione dei siti e dalla mancanza di una loro chiara connessione ambientale e paesaggistica, fattore che rende gli spazi urbani dedicati alla coltivazione di vegetali destinati all’alimentazione umana difficilmente riconoscibile dalla cittadinanza e dai media in genere.
In realtà l’orticoltura, anche se molto ridimensionata rispetto ad un recente passato, quando era praticata dalla maggior parte della popolazione residente, è ancora una attività diffusamente esercitata in città.
Il fenomeno che si va imponendo, di nuova e forte diffusione delle pratiche orticole nelle pieghe non edificate del tessuto urbano, appare come una risposta concreta al degrado del verde delle periferie e una barriera alla seduzione della speculazione fondiaria; pone numerose questioni di ordine sociale offrendo al contempo l’opportunità di suscitare e incanalare energie diffuse e positive. L’orto può inoltre costituire un elemento con cui ristabilire un rinnovato equilibrio ambientale nelle periferie metropolitane.
Le dinamiche di sviluppo che da decenni investono gli ambiti cittadini sono infatti generalmente alimentate da meri interessi speculativi riconducibili a gruppi di pressione e lobby economiche legate al mondo finanziario e a quello degli imprenditori edilizi che, entrando prepotentemente nel mondo della politica locale e nazionale, lo condizionano e ne deviano l’azione programmatrice, generando effetti forieri di disagio sociale e di danneggiamento spesso irreversibile del paesaggio.
Per questo la città ha la necessità di aprirsi alla diffusione delle coltivazioni, elaborando programmi mirati, tali da non costituire un ulteriore fattore di degrado e/o di forte e negativo impatto ambientale. Non bisogna negare, infatti, che un certo modo di realizzare le produzioni agricole è spesso causa di forte dissesto idrogeologico ed ecologico del contesto territoriale in cui esse si sviluppano.
Il paesaggio è il primo elemento sensibile che testimonia tale processo: gli squilibri che si determinano non hanno solamente un effetto estetico negativo ma manifestano il segno tangibile di un distorto sviluppo delle attività umane nei riguardi dell’ambiente, una ferita aperta che nella maggior parte dei casi sarà difficilmente sanabile.
L’aumento consistente delle esperienze di coltivazione urbana, dopo una prima fase irruenta e spontaneista, richiede una strategia che abbia come obiettivo quello di migliorare la qualità delle condizioni sociali, ambientali e alimentari delle popolazioni residenti nelle periferie urbane, facendo attenzione a non pregiudicare ulteriormente la qualità del paesaggio. Non basta perciò adottare regolamenti che stabiliscono le modalità di affidamento di piccole parcelle di coltivazione ai cittadini; significa somministrare soluzioni palliative poco efficaci e destinate a non persistere nel tempo. E’ necessario coniugare queste operazioni con un programma integrato di interventi che punti a consolidare e valorizzare sia gli insediamenti attuali che a individuare nuove aree su cui realizzare le coltivazioni orticole, tutto compatibilmente con le funzioni urbane e le risorse ambientali disponibili.
L’orto può così divenire il tassello elementare su cui costruire un piano di valorizzazione ambientale dei territori urbani degradati, lo strumento con cui affrontare una politica in grado di tradurre in pratica tutta una serie di parole d’ordine finora solo enunciate: diminuire la dipendenza alimentare delle popolazioni residenti negli aggregati urbani; incrementare la produzione agricola biologica e la costituzione dei gruppi di acquisto residenziali; aumentare l’occupazione giovanile in attività ecosostenibili e vantaggiose economicamente; favorire il chilometro zero per il trasporto e la commercializzazione dei prodotti agricoli; agevolare la partecipazione popolare alla gestione del bene ambientale; recuperare pratiche di coltivazione dolci e rispettose dell’ambiente; lavorare per la rinaturazione e la valorizzazione del tessuto urbano; sviluppare attività economiche locali ecocompatibili; tutelare e valorizzare il paesaggio.
Proporre la diffusione degli orti, o meglio di quella tipologia caratteristica di verde urbano che è l’orto-giardino, significa proporre una delle soluzioni che possono permettere di affrontare con fiducia il problema del progressivo, e apparentemente inarrestabile, degrado ambientale delle periferie urbane, della loro perdita di senso e identità. Si deve avere il coraggio di porsi di fronte al nocciolo della questione: quello, cioè, di arrestare il processo di annullamento dei legami che ci legano alla natura, la distruzione della memoria storica e culturale che contrassegna le nostre storie individuali, storie di transumanze ed emarginazione, storie da cui partire per la definizione di nuove identità urbane. Perciò bisogna puntare con decisione alla partecipazione diretta dei residenti nell’opera di tutela dei numerosi tasselli verdi inseriti nel tessuto urbano periferico della città, facendo anche leva sul carattere ‘sacro’ dello spazio verde familiare, su cui ricomporre, ove possibile, la frattura generazionale in cui si insinua la deresponsabilizzazione sociale e la perdita di valore del bene ambientale; lavorare per la tutela dei piccoli appezzamenti per un obiettivo comune di salvaguardia del futuro.
Impedire la tentazione di trasformare lo spazio verde privato in altro, in uno spazio dal carattere indistinto, omologato, vacuo, legandolo irresponsabilmente a una cultura materiale che assegna valore solamente al possesso speculativo oppure al dominio culturale dell’automobile e del sistema ad esso collegato.
Bisogna offrire questi spazi ai giovani restituendo valore e senso al territorio: partire dallo spazio verde privato delle abitazioni, sia un orto o un giardino, un cortile o un terrazzo condominiale, può significare invertire positivamente i processi di alienazione sociale e di svalutazione ambientale della città.
Nel nostro Paese la tradizione dell’orto–giardino permane ed è ancora possibile leggere la sua presenza nella trama dei centri storici dei piccoli e medi centri italiani. E’ una tipologia di verde che coniuga la coltivazione di specie eduli con specie ornamentali in una integrazione affascinante, empiricamente ottenuta, concreta.
Ma cos’è un orto–giardino? Potremo definirlo come un terreno recintato di dimensioni contenute di pertinenza di residenze urbane private familiari e/o condominiali. Si caratterizza per la coltivazione promiscua, a volte suddivisa in settori, di specie vegetali ornamentali, officinali ed eduli. La tipologia dell’orto–giardino ha radici nobili che lo pongono in diretta comunicazione con l’hortus degli antichi progenitori romani. Nell’hortus le funzioni ricreative e quelle alimentari non erano ancora disgiunte; chi può infatti negare la bellezza di un ciliegio in fiore e allo stesso tempo la bontà dei suoi frutti?
L’orto-giardino costituisce una possibilità, oltre che una necessità, di modifica dello stato di cose presenti, opportunità che si offre partendo dalla valorizzazione dell’unità elementare territoriale dove la natura ancora esplica, seppur limitatamente, la propria capacità vitale. Quando pensiamo all’orto riteniamo ovvio che il proprietario ne curi direttamente la coltivazione e che la sua attività sia necessaria, non voluttuaria: l’alimentazione, o comunque l’idea che noi abbiamo delle attività che permettono di procurarsi il cibo, rappresenta una attività propria dell’uomo, una operazione condotta generalmente in passato in modo diretto, che stabilisce una relazione profonda e ancestrale di appartenenza del coltivatore alla terra.
Quando pensiamo invece al giardino non escludiamo, generalmente, la possibilità che qualcun altro possa intervenire nella sua manutenzione ordinaria svolgendo le veci, parzialmente o totalmente, del proprietario. Nell’integrazione concettuale delle due realtà, nelle modalità di gestione che si presuppone le caratterizzino, ribaltiamo il senso comune, attribuiamo all’uno le proprietà dell’altro. L’orto-giardino pone quindi il proprietario nella condizione di assumersi l’impegno di un intervento diretto, senza mediazioni, nella pratica delle coltivazioni, conferendole al contempo un carattere estetico formale diverso, in grado di porre il lavoro progettuale e manuale apportato in un orizzonte sociale più ampio, conferendo così un significato meno privatistico all’azione. Il coltivatore-giardiniere lavora in questo modo concretamente al ripristino di condizioni ambientali migliori che, pur generandosi in uno spazio privato, si riverberano favorevolmente nel territorio circostante.
Queste legittime aspettative, se non saranno trasformate velocemente in atti concreti, rischiano di divenire paradossalmente elementi controproducenti e assumere una accezione cinicamente negativa, rappresentando una evidente velleità con cui giustificare ulteriormente l’accusa di inconsistenza e di ideologismo che si porta dietro chiunque sostiene la bontà di queste tematiche e cerca di spostare il baricentro della discussione circa la tutela ambientale su di un piano maggiormente avanzato e coraggioso.
I diversi regolamenti fin qui approvati dagli enti locali, sia quelli relativi al verde urbano che quelli normano la realizzazione degli orti sociali, non riescono a cogliere la specificità e la qualità di questi spazi verdi. La natura squisitamente metropolitana dell’orto-giardino, originatasi nei primi decenni del novecento in concomitanza dei fenomeni di espansione del tessuto urbano oltre i limiti storici delle città italiane, permea la forma dei nostri suburbi e identifica quelle ampie fasce residenziali sorte più o meno spontaneamente a ridosso delle cinte murarie dei centri storici.
Il paesaggio che ne deriva si struttura così in maniera significativa consegnando di diritto questi spazi all’identità storica, sociale e ambientale della città, confermando la vitalità e la ricchezza del nostro territorio.
La radice profondamente popolare dell’orto–giardino, con la sua carica progettuale e sperimentale allo stesso tempo profondamente razionale, costituisce un episodio non secondario della storia recente delle nostre città; testimonia una capacità di adattamento e di integrazione del modello, in grado di offrire una ricca varietà di forme e soluzioni tutte però riconducibili alla stessa necessità sociale e ambientale, alla stessa dimensione umana.
Per sviluppare un programma integrato di azioni tese a consolidare, valorizzare e diffondere la cultura dell’orto quale fattore di riqualificazione del suburbio si rende però necessario individuare con attenzione le differenti componenti della la galassia ‘orto’ in ambito urbano; definire, cioè, la qualità e la quantità di ogni specifico intervento da adottare per ciascuna delle tipologie di impianto e di conduzione censite.
Le amministrazioni locali sono chiamate a integrare finanziariamente e tecnicamente le energie dinamiche espresse dai movimenti che promuovono l’orticoltura urbana, risorse con cui implementare una nuova strategia di gestione del verde pubblico che non soffochi la spinta rinnovatrice prodotto dai movimenti in un pantano burocratico, zona di caccia preferita di millantatori e di speculatori.
La vicenda di corruzione e malaffare legata ai lavori dell’EXPO di Milano del 2015, evento, che si è posto tra gli obiettivi quello di rilanciare, tra gli altri, il tema di una agricoltura urbana sostenibile e diffusa, lo dimostra chiaramente. Al di là dei buoni propositi le iniziative concrete avviate per una agricoltura consapevole e solidale assumono spesso un ruolo secondario, soffocate da un parlare vano.
E’ inutile negare che il rischio insito in ogni operazione strategica complessiva ad ampio raggio di intervento è quello solito: laddove infatti si suscitano aspettative di risanamento territoriale da attuare utilizzando in fase progettuale e in fase realizzativa risorse economiche importanti ecco incombere nel migliore dei casi la dissipazione e l’uso irragionevole dei fondi a disposizione, nel peggiore il clientelismo e il malaffare, la corruzione. Basti per tutti citare quanto emerso dalle indagini condotte dalla magistratura sulla corruzione legata al mondo delle cooperative sociali, che ha fatto emergere la presenza di un sistema delinquenziale strutturato e consolidato, noto come Mafia Capitale, capace di ridurre le politiche di integrazione di fasce sociali disagiate (ex detenuti, minori, rifugiati, extracomunitari, ecc.) a bacino infinito di arricchimento illecito.
Appaiono evidenti le difficoltà legate a un passaggio storico tra una fase iniziale di implementazione di esperienze dal forte carattere innovativo ad una successiva di diffusione e definizione organizzativa e formale delle stesse.
E’ questo un processo tipico e ineludibile che investe indifferentemente ogni movimento innovatore della prassi corrente.
Per questo appare utile prendere a prestito quanto Ernesto Balducci*, nel suo libro Francesco di Assisi, Giunti Editore, Firenze 2004, sostiene con grande acume e pulizia intellettuale, sullo sviluppo di tali dinamiche; nel breve brano che segue l’autore affronta il tema della discordanza che si delinea tra i valori iniziali del cristianesimo, come di tutti quei movimenti fortemente alternativi al sistema dei valori corrente, tra cui è possibile annoverare anche le esperienze del movimento di cui ci stiamo occupando, e il successivo sviluppo, condizionato dalla istituzionalizzazione del pensiero profetico originario:
‘E’ un tema centrale della filosofia della storia quello del passaggio dallo spirito soggettivo allo spirito oggettivo, tanto per esprimersi con il linguaggio di Hegel, uno dei suoi massimi esponenti. Quanto ferve nel soggetto umano, e nelle comunità in cui la condivisione degli stessi valori produce un’alta tensione di ideali, andrebbe perduto se non si tramutasse, negando se stesso, nella durevole sostanza delle istituzioni, che sembrano. sì, troppo al di sotto dei livelli di idealità creativa del momento soggettivo, ma in realtà rappresentano il trionfo di quella ragione universale che è il vero principio che governa il processo della storia. Quel che nel passaggio si perde, o pare che si perda, in qualità, si guadagna in universalità. (…)
Usando uno schema più empirico elaborato in base ad una ricchissima osservazione dei fenomeni storici, Arnold Toynbee così spiega lo stesso processo:
“L’istituzionalizzazione è il prezzo della sopravvivenza. Ciò costituisce uno degli elementi negativi degli aspetti sociali della vita umana, ma l’istituzionalizzazione di una realtà di grande valore spirituale per la posterità è un male minore rispetto alla perdita totale di una ricchezza spirituale che potrebbe svanire. (...)
Ma gli effetti profetici dell’utopia, di anticipazione di una nuova realtà umana, permangono pure se costretti in maniera subalterna dentro i parametri di una cultura mondana ‘ragionevole’: spesso, in modo solo apparentemente inatteso, generano forme di vita individuali e collettive nuove, pur se provvisorie, capaci di produrre una diffusa e differente consapevolezza della condizione umana.
Oggi l’uomo sa che non ci sarà salvezza fino a che i minori, i lebbrosi della terra, non siederanno al convivio comune, fratelli tra i fratelli, e lo sa non per una più ricca intuizione morale ma perché l’alternativa è, prove alla mano, la morte di tutti.
(…) Oggi la coscienza comune, ma anche quella addestrata alle analisi, sa che la ragione come facoltà specifica dell’uomo non è quella istituzionalizzata nella tradizione occidentale al servizio di un progetto di dominio, è la ragione ancora disseminata nelle molte sapienze del genere umano, anche quelle che sono in nessun libro. Oggi l’uomo sa che è finita per sempre la civiltà alla cui base era la contrapposizione fra fedele e infedele, tra amico e nemico: la città sarà salva solo se il lupo farà un patto di fraternità con l’altro lupo. Oggi l’uomo sa che la sua pienezza presuppone la totale emancipazione di quella parte di sé che si chiama donna. E finalmente oggi l’uomo sa che, esposta ormai al rischio della catastrofe estrema, la biosfera non è più lo spazio del suo dominio, è l’organismo dentro cui pulsa la sua vita spirituale. L’amore per l’acqua, il fuoco, il sole, la luna, le piante e gli animali è una condizione del suo amore per se stesso: se egli è il padrone a cui tutte le creature devono obbedire, è anche il servo che deve obbedire a tutte le creature. Questa reciproca obbedienza trova il suo fondamento scientifico nel rapporto tra energia e vita, come dire tra energia e storia: chiusi come siamo nella legge dell’entropia, sappiamo che l’energia impiegata decade, in parte, nell’inerzia di morte e che dunque la civiltà del consumo accelera la fine della storia’.
L’unica risposta convincente rimane comunque quella di proporre diffusamente, singolarmente e/o in maniera associata, a tutti quegli enti locali e territoriali che hanno capacità d’intervento in questo settore della gestione ambientale del territorio e delle produzioni agricole alternative, di realizzare una politica degli orti in città convincente e concreta verificandone con paziente, costante ostinazione la trasparenza e l’efficacia.
*Ernesto Balducci (1922 – 1992) è stata una delle figure più rappresentative del cattolicesimo critico del novecento in Italia. Appartenente all’Ordine degli Scolopi è cresciuto e si è formato nel clima culturale generato nel secondo dopoguerra a Firenze intorno alla figura di Giorgio La Pira. Fautore di una politica di rinnovamento ecclesiale, di pace e di dialogo tra i popoli, valori che emersero con forza nel Concilio Vaticano II. Nell’ultima parte della sua attività e della sua vita si fa promotore di una svolta, definita ‘antropologica ‘ e ‘culturale’, per una decisa presa di coscienza dei problemi politici, sociali e ambientali del nostro Pianeta.